Openfabric architettura per divertirsi

Via XX Settembre (render), Openfabric, Genova, 2012

Testo tratto dall’intervista con Francesco Garofalo, fondatore dello studio di Architettura del Paesaggio e Urbanistica Openfabric

Ecco, la città è questo: la città è la commistione, la compresenza di tutte queste diversità. Il vivere insieme non può che non partire dal creare le condizioni perché queste diversità si possano incontrare.

Central Park (render generale), Openfabric, Kaliningrad, Russia, 2018-2019
Central Park (render generale), Openfabric, Kaliningrad, Russia, 2018-2019

Come nasce l’idea di Openfabric, studio di Architettura del Paesaggio e Urbanistica?

Ho aperto lo studio Openfabric nel lontano 2011 a Rotterdam, in Olanda, dove tuttora è la sua sede principale. Da qualche anno a questa parte ha aperto la sua sede a Milano. Dalla condizione di libero professionista, è cresciuto in una realtà complessa, articolata, dove ho due direttori che mi affiancano nella leadership dello studio e una dozzina di ragazze e ragazzi che lavorano con me. Openfabric è uno studio di Architettura del Paesaggio e Urbanistica. Quello che facciamo è concentrarci nel progettare gli spazi aperti, a qualsiasi scala, dalle installazioni – la piccola scala attraverso piazze, parchi, waterfront – fino ai grossi piani territoriali. Proviamo a lavorare su più scale, anche su una superficie geografica molto estesa. Lavoriamo in Asia, in Sudamerica, negli Stati Uniti, nel Medio Oriente, in Italia, in Olanda…

Shenzhen Terraces (primo premio), Openfabric, Shenzhen, Cina, 2019-2020
Shenzhen Terraces (primo premio), Openfabric, Shenzhen, Cina, 2019-2020

Avete un mentore a cui fate riferimento o un ideale a cui vi ispirate?

La nostra vocazione principale è quella di progettare lo spazio pubblico per le persone, per le comunità locali. Questo attraverso un’attenzione particolare anche alle questioni ambientali. Il nostro lavoro è indirizzato soprattutto alle persone e spesso la natura diventa lo strumento per ottenere questo. Mentori ne abbiamo tanti. Quello che noto con più piacere è che le persone a cui faccio riferimento sono spesso non del mondo degli architetti. Mi viene in mente Isamu Noguchi che era questo scultore giapponese- americano che ha lavorato tanto a New York e che poi ha fatto anche tentativi di progettazione di spazio pubblico. Mi viene in mente anche Luigi Ghirri, il fotografo, prendo in prestito tati linguaggi diversi e l’osservazione della realtà e un po’ anche per la composizione e la progettazione dello spazio.


Cosa ha costituito per voi di Openfabric il vostro primo incarico nel campo dell’architettura?

Noi abbiamo cominciato in una maniera particolare, un modo che non consiglierei, cioè quello di fare una marea di concorsi e abbiamo cominciato a vincerne un po’. Mi viene in mente il primo: era il concorso di Via XX Settembre, in centro Genova, la strada principale, che abbiamo vinto nel lontano 2011-2012. Da lì è cambiato lo stato: avevamo un progetto importante da mettere a punto, c’era un premio in danaro che ci veniva fondamentale in quanto start-up e da lì ci è stato questo passaggio: da una realtà che andava avanti a tentativi, ad una che cominciava a prendere una direzione.

Via XX Settembre (render), Openfabric, Genova, 2012
Via XX Settembre (render), Openfabric, Genova, 2012

Per quanto riguarda l’impatto emotivo è stato enorme: da genovese ho vinto un concorso per la mia città che è un piacere che ho provato poche volte. Pur avendo lavorato ovunque, un po’ da tutte le parti del mondo, la possibilità di vincere a casa propria, sui marciapiedi dove hai camminato, è una sensazione veramente bella. Poi anche la nascente self-confidence. Abbiamo cominciato a credere nei nostri mezzi. All’inizio erano tentativi però poi una possibilità di esprimere il proprio linguaggio progettuale, di farlo attraverso una realtà anche commerciale e istituzionale, stava nascendo. Una cosa un po’ difficile, così nell’architettura come nell’arte, la condizione di start-up, quella di inizio società, è particolarmente lunga.


Avete collaborato con altri gruppi? Cosa vi ha più interessato?

Collaboriamo in continuazione. Le collaborazioni ci danno tanto: innanzitutto tra colleghi si stabilisce un dialogo, sempre costruttivo anche, e soprattutto, quando è conflittuale. Nel non essere d’accordo poi si arriva in un punto diverso da quello da cui si era partiti ed è sempre più interessante. Crearsi una condizione di scomodità, di discomfort. Lavoriamo spesso con persone che fanno il nostro stesso mestiere: architetti, architetti del paesaggio. Poi, lavoriamo con esperti specifici che potrebbero cambiare per ogni progetto: se devo fare un video lavoro con un video maker. Collaboriamo: lo facciamo con realtà molto diversificate, lo facciamo in maniera specifica. Proviamo, in ogni progetto, a creare nuove collaborazioni con persone che possono coprire ruoli che sono particolari e specifici per quel progetto.

2πR (prototipo progetto), Openfabric e Kartonkraft, Italia, 2015-2016
2πR (prototipo progetto), Openfabric e Kartonkraft, Italia, 2015-2016

In cosa consiste l’attività di Openfabric nell’ambito dell’architettura?

Io personalmente sono un architetto del paesaggio però non metto mai la disciplina come limite. Non è la mia vocazione e non è la nostra vocazione. Noi non facciamo per forza quello che abbiamo studiato. Noi facciamo quello che ci interessa, con realismo. Nei nostri progetti è una delle linee di nostro interesse personale di ricerca e di volontà di svilupparci in una certa situazione. Ti faccio un esempio: ancora adesso, ma soprattutto anni fa, ci siamo concentrati sulla gastronomia. Sicuramente quello che mangiamo è prodotto agricolo e quindi è un prodotto di paesaggio. Però questo ci ha dato la libertà di parlare anche degli ingredienti, dei piatti, di lavorare con degli chefs.

Play, Openfabric, Euroflora 2011, Genova, fotografia di Francesco Garofalo
Play, Openfabric, Euroflora 2011, Genova, fotografia di Francesco Garofalo

Stamattina ho disallestito un’installazione che abbiamo fatto a Genova, dove abbiamo proposto un materiale: la graniglia. La graniglia che cos’è? È del cemento all’interno del quale ci si mettono dei marmi diversi. Ecco, noi abbiamo aggiunto dei tondini d’ottone, color oro, e dei pezzi di vetro di birra Moretti. Una volta fatto questo impasto, si leviga. Quindi tu vedi la sezione, una specie di fossile urbano da cui emergono tutti questi frammenti. Quello che io raccontavo a chi me lo chiedeva è che ci ha dato la possibilità di creare una mitologia minerale, dove ognuno di questi frammenti, di ottone, di marmo, pezzi di vetro, raccontano una storia diversa. Creano una relazione tra prodotto finale e le risorse e i luoghi, i paesaggi da cui queste risorse derivano.

Altitudes (mappatura), Openfabric, Selva Central, Peru, 2017-2018
Altitudes (mappatura), Openfabric, Selva Central, Peru, 2017-2018

Questo cosa vuol dire? Che un altro campo, che ci piace e che stiamo sperimentando sempre di più, è quello materico. Due esempi agli antipodi: con la gastronomia ti parlo di paesaggi agricoli, di distese ampie, di territori anche molto lontani. Noi abbiamo lavorato tanto per la produzione del caffè. Abbiamo un progetto in Perù, sulle Ande, territorio molto ampio e molto lontano dalle zone di consumo. Io e te il caffè lo prendiamo a Milano ma il caffè è stato prodotto, con molta probabilità, in America Latina. Agli antipodi perché poi c’è un interesse minerale, è tattile.


Cosa auguri allo studio di Architettura del Paesaggio e Urbanistica Openfabric per il prossimo futuro?

Per me lo studio Openfabric è una piattaforma dove posso esercitare e soddisfare la mia curiosità personale. Curiosità per posti, per cose, per persone. Ovviamente, essendo una realtà articolata, essendo tante persone in studio – poi il tanto è relativo – anche persone che arrivano da parti del mondo molto lontane. Vorrei che lo studio fosse una piattaforma dove possano esercitare e soddisfare la propria curiosità. Mi auguro che quello che è per me lo possa essere per tutti. Poi mi auguro di tenere lo spirito che abbiamo. Lo studio l’ho aperto nel 2011, ero un ragazzino appena laureato, ma mi rendo conto che lo spirito è veramente lo stesso. Lo spirito di chi fa le cose per la prima volta. La quantità di cose che noi facciamo per la prima volta è enorme. Forse uno dei segreti commerciali della società è imparare a fare qualcosa e poterlo replicare. Noi siamo l’esatto contrario: ci spostiamo sempre dalla comfort zone, facciamo cose nuove e spesso dobbiamo imparare tutto daccapo, creando una situazione di perenne scomodità, di necessità di calarsi nei panni altrui, di creare nuove collaborazioni. Mi auguro questo. Mi auguro che lo studio possa rimanere questo.


In linea con il tema centrale della Biennale di Architettura 2021, come interpreti personalmente la questione “How will we live together?”

Partiamo da una considerazione su quelli che sono i nostri tempi, quelli degli ultimi mesi, del Covid, della pandemia. Abbiamo assistito alla fine del vivere insieme, inteso come vivere pubblico, vivere di comunità. Siamo stati chiusi nelle nostre stanze. A me piace pensare che il vivere insieme non possa che partire dal dare un ruolo nuovo agli spazi pubblici, agli spazi di condivisione. Difenderli e tornare alle basi. C’è sempre stata una tensione crescente verso gli edifici pubblici eccezionali: la piazza, il parco. Una tensione giusta, ma forse eccessiva. Vorrei, anche attraverso il mio lavoro, pensare che vivere insieme possa ripartire dai fondamentali dello spazio pubblico: i marciapiedi. Abbiamo assistito ad una sorta di rivincita dei marciapiedi, uno spazio dove tutti potevano camminare o portare il cane, dove i bambini potevano giocare quando ci si poteva muovere solo a poche centinaia di metri dal proprio domicilio. È questo che mi aspetto come nuovo vivere insieme: dare importanza alla normalità, a tutto ciò che non è eccezionale.

Desio public spaces (vista dall'alto), Openfabric, Desio (MB), 2018-2019, foto di Daniele Pavesi
Desio public spaces (vista dall’alto), Openfabric, Desio (MB), 2018-2019, foto di Daniele Pavesi

Un’altra questione a cui abbiamo assistito di questi tempi è la fine dell’evento: in piazza non c’erano più concerti, non c’erano più eventi organizzati all’aperto. Voglio anche vedere che questo ha dato la possibilità alle persone di interpretare lo spazio pubblico informalmente. Ha creato nuove condizioni di equilibrio spontaneo dello spazio. Forse il futuro vivere insieme è evitare la sindrome di voler progettare tutto, ma creare spazi dove la comunità possa autogestirsi, creare da sola le proprie condizioni, organizzarsi da sola. Un utilizzo spontaneo dello spazio. Una persona interessata alla città comunque non può non essere sensibile ai temi della diversità, di genere, di origine, di vedute politiche… Ecco, la città è questo: la città è la commistione, la compresenza di tutte queste diversità. Il vivere insieme non può che non partire dal creare le condizioni perché queste diversità si possano incontrare. Non solo non si debbano scontrare, ma debbano e possano sovrapporsi, convivere insieme. Non solo accettarsi di vivere separatamente, ma possano interagire l’una con l’altra.

Into the Forest (cortile interno), Openfabric, Mantova, 2018, foto di Jacopo Gennari Feslikenian
Into the Forest (cortile interno), Openfabric, Mantova, 2018, foto di Jacopo Gennari Feslikenian

Fonti:
Openfabric

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